Giustizia del lavoro: la Cassazione legittima stipendi differenti a parità di mansioni

Segreteria FISAPI

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, ha stabilito un principio fondamentale nel diritto del lavoro, chiarendo che non esiste un diritto automatico alla parità retributiva assoluta tra dipendenti che svolgono le medesime mansioni. Questo significa che, a parità di compiti assegnati, un datore di lavoro può legittimamente riconoscere stipendi diversi ai suoi dipendenti.

La decisione dei giudici supremi (sentenza n. 17008/2025 e giurisprudenza precedente) si basa su due pilastri del nostro ordinamento:

L’Articolo 36 della Costituzione, che non impone un principio di uguaglianza retributiva universale, ma garantisce unicamente il diritto a un compenso proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, oltre che sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa.

L’assenza di discriminazione: La Cassazione ribadisce che la libertà del datore di lavoro di modulare gli stipendi viene meno solo in presenza di discriminazioni vietate dalla legge, come quelle basate su genere, età, razza, opinioni politiche o appartenenza sindacale (in base al Codice delle pari opportunità e al D. Lgs. n. 216/2003).

Quando il lavoratore può contestare
Per ottenere un incremento retributivo rispetto a un collega che svolge le stesse funzioni, il dipendente non può invocare automaticamente il principio di parità, ma deve dimostrare uno dei seguenti elementi:

Svolgimento di mansioni superiori: Dimostrare che l’inquadramento formale non corrisponde alle mansioni effettivamente svolte, che sono invece proprie di una qualifica superiore (in violazione dell’Art. 2103 c.c.).

Discriminazione: Provare che la disparità salariale è motivata da ragioni discriminatorie specificamente vietate dalla legge.

Il ruolo della Direttiva UE sulla Trasparenza
È importante notare che, sebbene la sentenza non sia in contrasto diretto con la Direttiva (UE) 2023/970 sulla trasparenza retributiva, quest’ultima ne restringe de facto il raggio di applicazione. La Direttiva impone, infatti, un principio di parità retributiva obbligatoria per lavori di pari valore tra uomini e donne, richiedendo che ogni differenza salariale sia oggettivamente giustificabile e documentabile.

In sintesi, la giurisprudenza italiana riconosce la libertà del datore di lavoro nel definire la retribuzione individuale, purché rispetti il principio di proporzionalità e non sfoci nella discriminazione. Tuttavia, la normativa europea spinge sempre più verso la trasparenza per rendere più agevole la contestazione di disparità ingiustificate.

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